L’ETERNO DILEMMA TRA AMORE E DENARO

Quante volte, magari da ragazzi, progettando il nostro futuro accanto alla fidanzata dei sogni, abbiamo immaginato di vivere “due cuori e una capanna”, trascorrendo giornate serene coccolando e lasciandoci coccolare dalla persona amata?

Poi però, passata la fase dell’infatuazione, quando piano piano la passione iniziava a scemare e la routine prendeva il sopravvento, ci siamo resi conto che di soli sentimenti non si campa e che oltre a quelli bisogna anche preoccuparsi di sbarcare il lunario. È stato probabilmente allora che a malincuore abbiamo cominciato, specie le femmine più sensibili ai condizionamenti sociali, a pensare che forse era meglio sistemarsi insieme a un “buon partito”, con un lavoro fisso e una famiglia benestante alle spalle, mettendo da parte il romanticismo.

Nel calcio, quello di oggi definito anche “calcio business” o “calcio moderno” da chi tenta in tal modo di attribuirgli valenze positive, non è diverso. Checché ne dicano i più qualificati “addetti ai lavori”, molti dei quali animati da interessi personali che nulla hanno a che vedere con il genuino spirito sportivo, coniugare le legittime aspettative dei tifosi con le esigenze di bilancio è impresa irrealizzabile. La nostra Inter non fa eccezione, e neanche a farlo apposta a pagarne le conseguenze è l’anello più debole (ancorché importante) della catena: il pubblico.

Chi vi scrive aveva già captato segnali preoccupanti alla vigilia di una stagione che per i colori neroazzurri si sarebbe conclusa trionfalmente con la storica conquista del Triplete, ancora oggi sogno proibito delle rivali storiche. Ricordate quella SuperCoppa Italiana giocata a diecimila chilometri di distanza per onorare l’impegno con i nuovi ricchi cinesi, che cominciavano a fiutare l’affare del grande calcio? E ricordate quel ritiro estivo nella canicola statunitense, inframezzato da amichevoli che nulla avevano da invidiare alle sfide decisive di Champions League? Una preparazione fisica sommaria, una “sfilata” di calciatori trasformati in divi di Hollywood, a beneficio delle manie di grandezza degli americani, sempre convinti che basti una manciata di dollari per comprarsi una tradizione che non hanno e che non avranno mai.

Questo è successo dieci anni fa. Ma oggi? Com’è la situazione?

La famiglia Zhang, proprietaria di Suning e probabilmente presente al gran completo quel giorno di agosto 2009 sugli spalti dello stadio “Nido d’uccello” di Pechino, ha acquisito le quote di maggioranza della società.

Lo storico centro di allenamento di Appiano Gentile, fortemente voluto dal presidentissimo Angelo Moratti e a lui intitolato, è stato ribattezzato “Suning training centre”.

In occasione dell’ultimo Inter-Bologna sul retro delle maglie indossate dai giocatori dell’unica squadra di Milano, anziché i loro cognomi campeggiavano incomprensibili ideogrammi. Doveroso omaggio al Capodanno cinese, ricorrenza da sempre “sentitissima” dai frequentatori della Scala del Calcio…

Maurito Icardi, che dell’Inter non era solo il bomber incontrastato ma anche il capitano, ben coadiuvato da una procuratrice in tutto e per tutto simile (curve a parte, s’intende) al maestro della categoria Mino Raiola, ha da un paio di mesi ridotto drasticamente la sua media realizzativa, avendo in testa pensieri ben più importanti quali per esempio l’adeguamento (con due anni di anticipo) del suo contratto da cinque milioni a stagione. Beh, del resto, tra figli naturali e acquisiti, tiene famiglia…

Qualcuno a questo punto potrebbe avanzare illazioni su vertici societari distanti dalla realtà interista non solo geograficamente. Nulla di più sbagliato…

All’indomani degli incresciosi ululati “razzisti”, che avevano indotto il “mite” difensore napoletano Koulibaly a una reazione nervosa altrimenti sconosciuta al suo personaggio e portato alla “sacrosanta” chiusura del “Meazza”, la voce della proprietà si è levata alta e roboante dall’estremo Oriente fino all’ufficio del giudice sportivo: rinuncia al ricorso come un’implicita ammissione di colpa, e per dimostrare tangibilmente la sensibilità verso questo “gravissimo” problema che affligge il nostro calcio, ecco lanciata al modico investimento di 9.000 euro la “geniale” campagna “Buu: Brothers Universally United*. Non urlatelo, scrivetelo!”

Ora, se io volessi pensare male potrei evidenziare che con quei soldi si sarebbero potuti installare dei maxischermi fuori dallo stadio, così da permettere ai tifosi (specie agli abbonati che di fatto hanno pagato il biglietto inutilmente) di assistere alle partite a porte chiuse… o sospettare che l’iniziativa strappalacrime fosse volta unicamente a cavalcare l’onda dilagante del politicamente corretto a tutti i costi per farsi pubblicità e crearsi una immagine positiva agli occhi dei perbenisti in servizio permanente… o addirittura ipotizzare che Koulibaly non abbia subìto nessuna contestazione, men che meno di stampo razzista, ma fosse semplicemente nervoso perché Napolitano lo aveva saltato come un birillo costringendolo al fallo di frustrazione…

Nooooo, ma figuriamoci. Scusate amici lettori, a volte non so proprio come mi vengano in mente certe idee…

 

* “Fratelli uniti universalmente”, per chi non ha familiarità con la lingua inglese.

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CUORE AZZURRO DELUSO

Forse cinque giorni sono ancora troppo pochi, forse la ferita di  un’eliminazione così beffarda non si rimarginerà mai. Fatto sta che non sono sereno.

Cristiano (Italia-Nuova Zelanda) 1

Non posso esserlo, men che meno stasera in cui, anzichè al Velodrome di Marsiglia aspettando il fischio d’inizio della semifinale, mi trovo seduto al tavolo a battere su una tastiera nell’ambizioso tentativo di fermare sullo schermo situazioni nate non dalla razionalità bensì da improvvise e violente scariche di adrenalina.

Fatta eccezione per il primo tempo di Italia-Spagna non abbiamo mai giocato bene. Il nostro Europeo è stato sofferenza, denti stretti, difesa a oltranza nella nostra tre quarti campo e uscite palla al piede che attentavano sistematicamente alle coronarie di noi tifosi, in attesa che si aprisse un varco per lanciarsi in contropiede. Lo scorso autunno Trapattoni, durante una delle sue pittoresche telecronache, aveva sancito che “a furia di prendere acqua, acqua, acqua, alla fine la spugna gocciola“. Quella spugna formata da Buffon, Barzagli, Bonucci e Chiellini, invece, sembrava in grado di assorbire l’intero Mare Mediterraneo senza perdere una sola goccia. Impermeabile a tutto tranne al doloroso quanto inutile gol di Robbie Brady nell’ultima gara di un girone che già ci vedeva qualificati al primo posto.

L’ottavo di finale contro le Furie Rosse non è stato solo la rivincita del 2008 e 2012, bensì la prova di forza che ci serviva per affrontare a viso aperto le superpotenze che il calendario aveva messo sulla nostra strada. La prima di queste i Campioni del Mondo tedeschi. Per la prima volta da quarantasei anni a questa parte la loro obiettiva superiorità ha avuto la meglio sulla tradizione che raccontava di quattro qualificazioni azzurre su altrettanti scontri diretti. I teutonici ci hanno messi lì e a 12 minuti dalla fine conducevano meritatamente, quando un rigore fischiato a nostro favore ha consentito al coraggioso Bonucci di presentarsi sul dischetto e perforare il portiere Neuer per la prima volta in cinque partite.

Dopo due ore più recuperi di battaglia ci sono voluti altri 18 tiri dagli undici metri per decretare la semifinalista. Ci ho sperato. Nonostante la partita avesse già mostrato chiaramente qual era la squadra migliore, quando riesci a limitare i danni, pareggiare con l’unico tiro in porta e ti trovi addirittura inaspettatamente in vantaggio di un penalty, è inevitabile pensare allo scampato pericolo, percepire al tuo fianco la presenza della Dea Bendata e il gusto dolce del trionfo solleticare le tue papille gustative. Niente da fare, sogno svanito proprio in vista del traguardo.

Benchè il supremo e unico fine del calcio sia la vittoria, chiudere qui questo articolo sarebbe riduttivo. Oltre ai chilometri percorsi, al turismo con gli amici, ai soldi spesi, alle chiacchierate a gesti o mescolando idiomi diversi, nella memoria restano soprattutto le emozioni. Quella gioia di un gol che ti porta ad abbracciare uno sconosciuto vicino di posto come se fosse il tuo migliore amico.

Cristiano con spettatore sconosciuto

Peccato che ancora una volta sia finito tutto così presto…

 

 

 

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LA FINALE DI CHAMPIONS LEAGUE

Sabato scorso, ospitando il derby madrileno allo stadio San Siro “Meazza” di Milano, l’Italia è diventata la nazione dove si è disputato il maggior numero di finali della competizione internazionale più importante del Vecchio Continente: 9 contro le 8 di Germania e Inghilterra.

L’ultima volta che “la coppa dalle grandi orecchie” era stata assegnata nel nostro Paese risaliva al 2009, quando teatro della partita decisiva fu lo stadio Olimpico di Roma. A contendersi il trofeo Barcellona e Manchester United, le cui rispettive stelle Messi e Cristiano Ronaldo non erano ancora gli eterni rivali che oggi si spartiscono record e Palloni d’Oro. Per trovarne un’altra giocata alla Scala del Calcio dobbiamo invece tornare indietro a Bayern Monaco-Valencia del maggio 2001. Quindici anni.

Anche allora mi sarebbe piaciuto esserci ma i biglietti, come sempre accade in questi casi, erano troppo pochi rispetto all’enorme richiesta, e complice anche una distribuzione tutt’altro che equa da parte dell’ente organizzatore erano finiti chissà come nelle mani di pochi eletti. Da parte mia ero troppo pigro per trovare canali alternativi. O forse non abbastanza “matto”…

Tre lustri dopo non potevo mancare. La data del 28/5/2016 fin dall’ufficializzazione della sede era segnata con un circoletto rosso sul mio calendario. In un modo o nell’altro, per fortuna, conoscenze, o compromessi, sarei stato sugli spalti ad assistere a un evento storico indipendentemente dai protagonisti in campo!

Quando il sorteggio della Uefa mi ha voltato le spalle e Roberto Beccantini, giornalista della Gazzetta dello Sport incontrato alla Hall of Fame durante un dibattito, ha deluso le mie speranze ho capito che avrei dovuto battere altre strade tutt’altro che agevoli. Il sottobosco del bagarinaggio on-line è popolato da soggetti poco raccomandabili, millantatori, falsari, pronti a speculare su una passione genuina pur di intascare una manciata di euro. Garanzie? Poco più di zero, ma io dovevo esserci! Google è stato il mio primo compagno di viaggio, aiutandomi a effettuare un’iniziale scrematura tra recensioni negative, metodi di pagamento stravaganti, siti chiusi dalle autorità e ogni genere di fregatura possibile e immaginabile nella quale non intendevo cadere. Dopo qualche giorno di tentativi vani mi sono finalmente imbattuto in Ticket Bis, che seppure ben lontano dall’unanimità dei consensi mi si è presentato con interlocutori in carne e ossa, sempre raggiungibili, e disposti a fornire risposte puntuali con spiegazioni dettagliate. Affidabili insomma, per quanto lo possano essere voci sconosciute all’altro capo della cornetta. L’agognato tagliando mi è stato consegnato tramite corriere espresso cinque giorni prima della partita, ma già da un po’ ne stavo monitorando il percorso attraverso il codice di tracciamento fornitomi all’atto della spedizione, quindi ero relativamente tranquillo.

Con l’avvicinarsi dell’evento la città è stata pervasa da un’atmosfera di festa mista a grande attesa: esattamente il motivo per cui ci tenevo a viverlo in prima persona. Esibizioni della Coppa al pubblico, aree tematiche destinate ai tifosi che cominciavano ad arrivare sempre più numerosi, iniziative degli sponsor con la partecipazione di vecchie glorie… I manifesti appesi ai muri, le pubblicità sulle fiancate dei mezzi pubblici, fino al rivestimento delle torri all’esterno dello stadio: Milano non era più una metropoli come tante; era la città della finale. La parziale limitazione del traffico automobilistico nelle zone limitrofe all’impianto, decretata per i soliti fantomatici “motivi di ordine pubblico” è stata solo un piccolo dazio da pagare in cambio del godimento nel quale mi sarei di lì a poco immerso. Il giorno della partita splendeva un sole estivo, forse il primo dell’anno, e già nel pomeriggio sono uscito di casa in bicicletta per assaporare insieme agli amici e alle due tifoserie ormai al completo le ultime ore prima che la tranche agonistica e l’adrenalina diventassero padrone assolute della scena. Le due ore e un quarto trascorse al secondo anello blu in attesa del fischio d’inizio sono letteralmente volate come raramente mi era capitato, tra fotografie da riguardare e tramandare ai posteri a testimonianza che “io c’ero”, e conversazioni in spagnolo improvvisato per aiutare da buon “padrone di casa” il pubblico giunto dalla sponda biancorossa di Madrid a trovare il suo seggiolino, o semplicemente per condividere quelle emozioni da me ben conosciute e stavolta provate solo di riflesso nell’inedito ruolo di spettatore neutrale. In realtà mi trovo nella Curva “sbagliata” visto che le mie simpatie sono rivolte al Real Madrid, ma nell’occasione si tratta di un banale dettaglio. Ciò che conta è che sono lì. Lì dove desideravo essere. L’ho fortemente voluto e ci sono! Certo magari dovrò trattenere eventuali esultanze, ma rispetto ai miei vicini di posto ho un vantaggio non trascurabile: per me non è importante chi vincerà, ciò che conta è essere invitato alla festa!

L’altoparlante annuncia le formazioni, le due Curve si colorano delle rispettive coreografie, il palco della cerimonia di apertura viene rapidamente smontato. L’arbitro fischia, si comincia. Dopo appena un quarto d’ora sono le Merengues a passare in vantaggio grazie a Sergio Ramos, autentica bestia nera dei Colchoneros dopo il pareggio a tempo scaduto che due anni fa aveva spianato la strada alla rimonta nella finale di Lisbona. Sarà che nonostante l’enorme importanza è un “gollonzo”, sarà che io sono dall’altra parte dello stadio, fatto sta che ho la sensazione che l’esultanza dei tifosi del Real sia abbastanza contenuta, quasi incredula. Il primo tempo scorre veloce senza particolari sussulti, ma il bello deve ancora venire. Nella ripresa succede di tutto. La musica cambia fin dai primissimi minuti, con l’Atletico, sostenuto dai cori incessanti del suo caldissimo e fedelissimo pubblico, che prende in mano le redini del gioco dimostrando di saper anche costruire oltre che chiudersi strenuamente in difesa. Neanche il clamoroso errore di Griezmann, che scarica sulla traversa il rigore del possibile 1-1, placa la furia biancorossa e dopo due nitidi contropiedi con cui Benzema e Cristiano Ronaldo falliscono il colpo del ko, la più classica delle regole non scritte del calcio fa valere la sua legge: gol sbagliato, gol subìto. A poco più di dieci minuti dalla fine è il neo entrato Carrasco a rimettere in parità le sorti dell’incontro, per poi lasciarsi andare a un’esultanza tanto romantica quanto insolita. Nei successivi quaranta minuti, compresa la mezz’ora di supplementari, il risultato non si sblocca. Un derby, una finale di Coppa dei Campioni, deciso dagli undici metri. Mentre nel cerchio di centrocampo gli allenatori scelgono i loro rigoristi il mio cuore accelera, e non oso neanche immaginare cosa stanno provando i tifosi delle due squadre. Da infarto! “Chi uscirà sconfitto non si riprenderà più”, penso tra me e me.

I protagonisti scelti dal destino per entrare nella storia dalle due opposte estremità sono il numero 20 biancorosso Juanfran che calcia sul palo alla destra del portiere il quarto penalty della sua squadra, e l’uomo in assoluto più atteso: Cristiano Ronaldo, il quale dopo una serata a dir poco anonima spiazza il portiere avversario regalando al Real Madrid la “undecima” Coppa dei Campioni della sua leggendaria epopea. Un risultato questo che consente a Milano di mantenere il primato di unica città a poter vantare due squadre Campioni d’Europa. Sarebbe stato un peccato perderlo proprio nel nostro stadio. E mentre io ragiono sulla statistica, neanche mi accorgo di venire catapultato in una dimensione parallela. Sì, perché solo al di fuori dalla realtà 20-30mila cuori affranti dalla più bruciante delle sconfitte intonerebbero cori orgogliosi applaudendo a scena aperta i loro beniamini che, in lacrime e con la medaglia di consolazione stretta in mano, chiedono scusa sotto la Curva. Nell’altra metà campo, intanto, suonano le note di “Hala Madrid!” e si scatena la prima parte della festa dei neo Campioni d’Europa. Il seguito si svolgerà ventiquattr’ore dopo allo stadio Bernabeu.

Magie di una finale. Che non sarebbe stata la stessa senza di me!

Biglietto finale Champions League.jpg

Andrea, Paula, Matteo, Cristiano sotto la Coppa gigante.JPG

Cristiano al 'Meazza' (finale di Champions League) 01.JPG

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L’ITALIA NON VI PIANGE!

E’ trascorsa quasi una settimana da quando un commando di terroristi islamici strafatti di droghe psicogene, rappresentanti del famigerato Isis, hanno portato a termine la loro folle azione omicida uccidendo a colpi di kalashnikov 129 persone, fino a qualche ora prima ignare della fine a cui stavano andando incontro recandosi al teatro Bataclan di Parigi per assistere a un concerto. La loro colpa? Essersi trovate al posto sbagliato nel momento sbagliato.

A poche centinaia di metri dal luogo della strage, allo Stade de France, si stava giocando l’amichevole tra la Nazionale transalpina e la Germania Campione del Mondo quando, sul risultato di 0-0, un boato ha scosso pubblico e giocatori. Non era l’esultanza per un gol a cui tutti siamo abituati, bensì lo scoppio di una bomba con cui un kamikaze a cui era stato negato l’accesso all’impianto si era fatto saltare in aria in mezzo alla strada. La partita é regolarmente terminata con il successo dei padroni di casa per 2-0 ma alla fine gli spettatori, anziché uscire e tornare a casa, sono stati fatti defluire sul terreno di gioco. Fuori la situazione era caotica e non sarebbe stato prudente nè opportuno creare ulteriore panico.

Nei giorni successivi le manifestazioni di solidarietà si sono sprecate. Bandiere a mezz’asta in segno di lutto, profili facebook colorati di rosso-bianco-blu, minuti di silenzio in ogni occasione, la Marsigliese suonata su tutti i campi della Serie B prima della giornata di campionato.

In questa disgustosa e vomitevole gara di ipocrisia e buonismo, alimentata dal “politicamente corretto” ad ogni costo, sembra che tutti si siano dimenticati dell’uno-due firmato da Platini e Stopyra a Messico ’86, del rigore di Di Biagio respinto dalla traversa a Francia ’98, del pareggio a tempo scaduto di Wiltord e del golden gol di Trezeguet nella finale di Euro 2000. Due Mondiali e un Europeo abbiamo perso contro i transalpini! In quei momenti a noi si stringeva il cuore e faticavamo a capacitarci di come il nostro urlo ci fosse stato ricacciato in gola proprio quando era già pronto a esplodere. Loro festeggiavano sui Campi Elisi…

Nove anni fa finalmente é toccato a noi a esultare. Il colpo di testa di Materazzi, trascinato in cielo dall’anima di sua mamma prematuramente scomparsa per riequilibrare il risultato dopo l’ingiusto vantaggio siglato da Zidane (ironia della sorte maghrebino e di famiglia musulmana), e il penalty decisivo di Fabio Grosso ci hanno regalato un’emozione che ci resterà dentro per sempre. Chi di traversa ferisce, di traversa perisce… vero Trezeguet? Chiamasi legge del contrappasso, o semplicemente dello sport.

Negli Anni Sessanta Lucio Dalla ci ricordava che “bisogna saper perdere“. Già, lui però é italiano. Loro no. Loro anziché accettare la sconfitta in dignitoso e rassegnato silenzio, applaudendo i vincitori e abbassando la testa, hanno eletto il loro numero dieci a vittima innocente di una provocazione vigliacca perpetrata da un avversario non all’altezza. E pazienza se la testata ricevuta da quest’ultimo era stata così violenta e inaspettata da fargli rischiare la vita. Pretendevano le NOSTRE scuse!

Due mesi dopo le due Nazionali si trovarono nuovamente faccia-a-faccia, stavolta in una partita valida per il girone di qualificazione a Euro 2008. Teatro della sfida lo Stade de France, lo stesso sfiorato dal recente attentato, occupato in quell’occasione da ottantamila spettatori ancora col dente avvelenato e i bruciori di stomaco che non hanno esitato a vilipendere coi loro fischi assordanti l’Inno di Mameli, e con esso il nostro popolo, la nostra bandiera e la nostra storia.

Questi sono i francesi. Gli stessi che fingono di non capire se osiamo esprimerci in un idioma diverso dal loro (compreso l’inglese, adottato in tutto il mondo come lingua internazionale), gli stessi che pur essendoci inferiori in tutto (vini, donne, moda, formaggi) ci guardano dall’alto in basso con la puzza sotto il naso. Probabilmente quella che loro stessi emanano per carenza di igiene intima, del resto senza bidet… Questa é la gente per cui da giorni stiamo (plurale majestatis, io no di certo!) versando fiumi di lacrime virtuali, e addirittura discutendo se sia il caso di inviare le nostre forze armate a dare loro manforte nei bombardamenti in Medio Oriente. Come se fosse un problema nostro se loro sono così fessi da lasciarsi attaccare due volte in dieci mesi a casa propria! Ma per caso quando L’Aquila é stata rasa al suolo dal terremoto del 2009 qualcuno a ovest di Ventimiglia si é preoccupato dei morti rimasti sotto le macerie? E perché mai avrebbero dovuto? Dopo tutto in quel caso si trattava “solo” di italiani…

La vita é una ruota, “cari amici” rosiconi d’oltralpe, e a questo giro sta a voi piangere i vostri morti e ricostruire la vostra città. Io vi guardo seduto sulla riva del fiume.

 

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MOMENTI DI GLORIA (amarcord)

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DIMENTICARE

Dimenticare i venerdì pomeriggio sulla A1, con i chilometri che scorrevano veloci sotto le ruote e l’impazienza di trovare ad attendermi, una volta spento il motore, una panzanella cucinata apposta per me, un bagno caldo con tanta schiuma per ritemprarmi dalle fatiche del viaggio, o una stanza da letto illuminata da luci soffuse per creare la giusta atmosfera.

Dimenticare tutte le volte che ho sbagliato strada alla rotonda all’ingresso del paese, puntualmente ripreso dal solito “Oh, ma te tu sei proprio grullo” in un tono a metà tra il rassegnato e la presa in giro.

Dimenticare Bianco, Mimma e Matilde che al mattino salivano sul letto matrimoniale reclamando la colazione facendo le fusa, incuranti magari di interrompere qualcosa… E Tarzi che arrivava a dare loro manforte, prendendoci letteralmente a testate sul mento.

Dimenticare la “stanza inguardabile”, nella quale per un intero weekend mi ha impedito di entrare per paura che restassi impressionato dal disordine dei vestiti sparsi ovunque. E io pensavo che ci nascondesse i cadaveri dei suoi ex o chissà quale altro segreto inconfessabile.

Dimenticare le notti al volante per arrivare puntuale in ufficio al lunedì mattina, dopo essermi goduto fino all’ultimo secondo del fine settimana insieme.

Dimenticare i buchi nel muro fatti, nel goffo (e inutile) tentativo di appendere lo specchio dell’Ikea sul muro della stanza da letto.

Dimenticare Ciambellina e Mapabù, i nomignoli che ci eravamo dati.

Dimenticare Pingusto e il ristorante cinese di Poggibonsi.

Dimenticare l’abbraccio stretto al limite del soffocamento e l’interminabile bacio, che mi ha riservato quando le ho regalato il biglietto per il concerto dei Negramaro al Mandela Forum.

Dimenticare i panini con la porchetta gustati al mercato di Greve in Chianti.

Dimenticare le gite a Cecina e al parco di Cavriglia.

Dimenticare le maledizioni lanciate agli stilisti, colpevoli di non considerare come potenziali clienti le donne alte 1,90 m.

Dimenticare i complimenti ricevuti con quella vocina tenera da bimba e gli sms dolci / hot / provocatòri che mi facevano vibrare il telefonino (e non solo quello…) nei momenti più inaspettati. Chissà se erano parole davvero sentite o solo un copione abilmente recitato?

Dimenticare le mattine in cui mi chiedeva la sveglia telefonica, perché la sua suoneria con lo snooze non bastava a tirarla giù dal letto. Quanti squilli a vuoto, prima che aprisse gli occhi e si decidesse a rispondere! Anche adesso la devo chiamare 25 volte, sempre con la segreteria che si inserisce… ma perché non mi vuole più parlare 😦

Dimenticare le sere trascorse sul divano guardando sul computer film scaricati abusivamente, e “litigando” per chi dovesse occupare il posto più comodo.

Dimenticare i discorsi fatti e quelli che non abbiamo avuto tempo di fare.

Dimenticare il pianto a dirotto in cui è scoppiata quando le ho confessato di non amarla. Le ho asciugato le lacrime e a quel punto sembrava tutto a posto. Mi ero illuso che lo fosse, invece era solo l’inizio della fine. Che sia stramaledetta la mia sincerità!!!

Dimenticare la promessa, questa sì sicuramente falsa quanto illusoria, di esserci sempre comunque fosse andata a finire.

Non sarà semplice dimenticare tutto questo; ci vorrà del tempo e naturalmente non ho idea di quanto. Ma la cosa più difficile da dimenticare sarà certamente quell’ “AM-MÁZ-ZA-TI!” pronunciato così, scandendo bene le sillabe una dopo l’altra, con cui si è aperta e chiusa la nostra penultima chiamata.

Come abbiamo fatto a ridurci così? Eppure eravamo così belli…

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SOGNO

 

 

 

Ieri era il mio 37° compleanno. Esattamente tre anni fa avevo incontrato per la prima volta Francesca, invitandola a mangiare alla trattoria “Se… Poi… Quando…“, e poi facendola salire a casa mia dove era rimasta fino a notte fonda, raccontandoci reciprocamente per cominciare a conoscerci meglio. Tra noi non era accaduto nient’altro ma lei era stata praticamente il mio regalo!

Sono trascorsi ormai più di 8 mesi da quando mi ha lasciato e quella cena, insieme a molti altri episodi, costituisce solo un bel ricordo.

In serata l’Inter è uscita male dalla Coppa Italia e quando ho capito che non c’era più nulla da fare ho spento la televisione e sono andato a dormire. Ero stanco per una giornata dura e deluso per un risultato negativo; il sonno mi avrebbe giovato su entrambi i fronti.

Poche ore dopo essermi buttato sul letto, però, davanti a me si è materializzata la figura della mia ex fidanzata. Abbiamo iniziato a chiacchierare come se malintesi, discussioni, sofferenze e ripicche non fossero mai esistiti, riprendendo da uno qualsiasi dei nostri numerosi appuntamenti a orari improbabili. Mi ha parlato anche del suo attuale ragazzo, al momento lontano per motivi di studio / lavoro, e più la ascoltavo più ritrovavamo la stessa confidenza e la stessa intimità di sempre. Meglio una torta in tanti che una merda da solo, l’ho sempre detto!

Trovandomi davanti il suo corpo, improvvisamente mi è tornato in mente un aspetto che, non so come, fino a quel punto mi era sfuggito: “Scusa Giollyna, ma tu non mi avevi detto di essere incinta?

Qualche secondo di silenzio, rotto dall’intervento di sua mamma seduta a pochi metri da noi: “Ecco, lo sapevo che prima o poi i nodi sarebbero venuti al pettine…“. Probabilmente non sono state queste le esatte parole, ma di sicuro mi è bastato girare rapidamente lo sguardo tra madre e figlia per capirne il significato: la gravidanza era stata solo una bugia abilmente architettata, forse per liberarsi più facilmente di me. In quel momento non mi importava, nè quello nè qualunque altra cosa accaduta nel passato; contava solo aver riallacciato il rapporto.

Chissà perchè, però, ho deciso ugualmente di manifestare la mia sorpresa con un gesto forte: mi sono alzato dalla poltrona, mi sono diretto in stanza, ho aperto l’armadio e ho iniziato a preparare i bagagli. Come avrebbe reagito Francesca sapendo che il suo inganno mi aveva convinto a prendere il primo aereo per l’Italia? Già, perchè anche se non ve l’avevo detto questa scena si è svolta in Africa.

Purtroppo non ho avuto il tempo di scoprirlo, perchè ancora prima di avere riempito la valigia ho aperto gli occhi e mi sono ritrovato nuovamente avvolto dalle coperte, nello stesso letto dove mi ero addormentato quattro ore e mezza prima.

Il 17 aprile, terzo anniversario del nostro primo incontro. La Coppa Italia svanita, quando proprio una finale di questo trofeo, vista all’Olimpico di Roma insieme a Francesca poco meno di due anni fa, rappresenta tutt’ora la ciliegina sulla torta del fine settimana più bello della mia vita. Sarà stato solo un caso che questo sogno lo abbia fatto proprio la notte scorsa? Mah, chi lo sa, di sicuro con tutti gli sforzi che sto facendo per dimenticarla, questa proprio non ci voleva!

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NON E’ VERO, MA… COMINCIO A CREDERCI

Un anno si compone di 365 giorni, questo lo sappiamo tutti. Senonchè il tempo di rivoluzione del pianeta Terra intorno al suo asse non è così preciso come servirebbe a chi compila i calendari a cui siamo abituati. Per l’esattezza dura circa 6 ore in più e ciò impone, per mantenere il calendario allineato con le stagioni, di aggiungere, ogni quattro anni (con esclusione dei secoli “tondi”, per esempio il Duemila), un giorno al mese di febbraio, dando così luogo a quello normalmente conosciuto come “anno bisestile”.

Secondo una credenza popolare, vecchia di non so quanti secoli e dovuta probabilmente alla paura che da sempre incute nelle persone qualunque aspetto sfugga alla normalità, è nato il proverbio “Anno bisesto, anno funesto“, a indicare inequivocabilmente le sventure che tali anni porterebbero con sè.

Essi a me sono sempre rimasti impressi non tanto per questioni astronomiche, bensì in quanto si disputano i Giochi Olimpici e i Campionati Europei di calcio, e proprio a quest’ultima manifestazione sono legati alcuni episodi che, ripensati col senno pessimistico di poi, aprono una breccia nel mio pragnatismo inducendomi a credere che forse non si tratta di semplice superstizione.

L’esito beffardo della finale Italia-Francia disputata a Rotterdam il 2/7/2000, allorquando i transalpini scipparono nei minuti di recupero alla Nazionale azzurra guidata da Dino Zoff un titolo già vinto, è stata “solo” una delusione sportiva, sebbene la più cocente nella mia carriera di tifoso. In sèguito sarebbe successo ben di peggio…

Nel 2004 mi sono recato in Portogallo, acquistando un pacchetto completo che comprendeva il viaggio andata e ritorno e le prime due partite degli Azzurri (0-0 all’esordio contro la Danimarca e 1-1 contro la Svezia, presupposto dell’eliminazione al primo turno sancita dall’inutile vittoria contro la Bulgaria, vissuta in diretta televisiva al mio rientro in Italia). Già da qualche settimana accusavo un dolore all’attaccatura della gamba sinistra e una volta tornato in Patria, considerato anche il graduale ma costante peggioramento, ho voluto vederci chiaro iniziando un iter diagnostico lungo un anno e mezzo che purtroppo non ha prodotto alcun risultato nè tantomeno una cura. Pur non essendo completamente guarito ora sto meglio, anche se ho dovuto smettere prematuramente di giocare a calcio e andare in bicicletta, ma soprattutto non ho mai saputo quale fosse l’origine del mio malessere.

Ripresomi da questa difficile esperienza, ho cominciato a progettare la mia “rivincita” in occasione di Austria & Svizzera 2008: trasferta completamente “fai da te” stavolta, dall’acquisto dei biglietti (a prezzi da gioielleria, visti i canali non ufficiali a cui mi sono dovuto rivolgere) fino alla sistemazione. Il tutto si è concluso con centinaia di chilometri macinati in giro per l’Europa anche a causa del mio navigatore non aggiornato, svariate notti passate in auto visto il tutto esaurito di alberghi e pensioni, un’eliminazione ai rigori nei quarti di finale, e soprattutto la traumatica rottura con la mia amica Anna23, così fredda e crudele da ignorare i miei messaggi d’amore non degnandomi neanche di una risposta, e poi sparire completamente dalla mia vita senza nemmeno spiegarmene il motivo.

E veniamo ai giorni nostri: Euro 2012. La Nazionale “multietnica” di mister Prandelli mi coinvolge assai meno delle precedenti, ma quando si arriva in finale la speranza di mettere in bacheca una Coppa che entrerebbe nella storia indipendentemente dalle origini di chi ha contribuito a conquistarla diventa molto forte. Invece un’altra sconfitta, stavolta nettissima e strameritata: Spagna 4, Italia 0. Vissuta in terra neutra: Tanzania, dove ero andato carico di buoni propositi per riconquistare definitivamente il cuore di Francesca, la mia ex ragazza che da qualche tempo sentivo meno coinvolta nei miei confronti. Proprio la sua vicinanza e il rinnovato affetto che mi ha dimostrato per tutti i diciotto giorni della mia permanenza hanno fatto sì che superassi l’umiliazione calcistica praticamente indenne. Purtroppo, però, si è rivelata solo un’illusione durata poche settimane: dopo neanche un mese dal mio rientro a casa, nel quale tutto sembrava procedere per il meglio tra lunghe videochiamate intercontinentali e progetti per trascorrere le vacanze insieme, lei ha deciso improvvisamente che “non ero l’uomo giusto” e a nulla sono serviti i miei tentativi di capire cosa avessi sbagliato, i miei pianti per farla tornare sui suoi passi, la mia disperazione dettata dall’impotenza di chi perde proprio sul più bello la donna amata a distanza di migliaia di chilometri. Adesso è felicemente fidanzata con un ragazzo tanzaniano disoccupato che frequenta l’ultimo anno di università, e aspetta un bambino da lui. L’ho vista per qualche ora undici giorni fa, dopodomani ripartirà per l’Africa e le nostre strade si divideranno per sempre.

Devo cercare di superare in fretta questa ennesima mazzata, perchè tanto lo so che nel 2016 me ne capiterà un’altra. Ho paura di immaginare cosa…

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ILLUSO, TRADITO, LASCIATO

Lo so da 3 mesi, giorno più giorno meno, ma solo ora trovo il tempo e la voglia per questo sfogo inutile, destinato a restare tra me e quel migliaio di occasionali visitatori sconosciuti che càpitano per caso sulla mia pagina da ogni parte del mondo attraverso chissà quali meccanismi, molti dei quali facilmente non parlano nemmeno italiano.

Francesca, la ragazza che per 2 anni e mezzo mi ha accompagnato in un ambiguo quanto bellissimo rapporto vissuto costantemente tra l’Europa dove io vivo e l’Africa dove lei lavora, ha deciso che non sono l’uomo giusto per lei. Le è bastato un fine settimana per capirlo, appena 17 giorni dopo avermi guardato dritto negli occhi promettendomi che avremmo passato le sue ferie insieme, per metterci nuovamente alla prova e compiere un altro passo verso il nostro futuro. E io, ingenuo, ci avevo creduto ed ero salito sull’aereo col cuore leggero di chi sa di aver compiuto la sua missione e di non avere più niente da temere. I “mi manchi“, “ti voglio tanto bene“, “grazie di esserci“, scandivano le mie giornate mentre organizzavo il viaggio alle Seychelles in dolce compagnia della mia bella. Che non faremo mai.

Tornerà in Italia tra 19 giorni e si fermerà due settimane, durante le quali non so quanto tempo vorrà dedicarmi, presa come sarà a raccontare a tutti del suo nuovo fidanzato tanzaniano e della vita spensierata nell’emisfero australe, laddove si aspettava che io la raggiungessi stravolgendo completamente la mia vita. Avrei anche potuto farlo, forse, se solo me lo avesse chiesto chiaramente quando ancora provava per me un sentimento diverso dall’indifferenza. Invece no, ha preferito tenersi tutto dentro, piangendo in silenzio e dicendomi la verità solo a giochi fatti. Sono stato messo davanti al fatto compiuto senza avere la possibilità di difendermi, oltretutto dovendo strappare informazioni e ammissioni con le pinze una dopo l’altra. Ciononostante la amo ancora, e continuerò a farlo chissà per quanto altro tempo, pensando e ricordando a come siamo stati bene insieme prima che i suoi neuroni andassero improvvisamente in tilt.

Recentemente, raccontando la mia storia durante una cena in famiglia, mi sono sentito dire che la libertà totale che le ho concesso di accettare il lavoro in Africa e di trascorrere il pomeriggio di Pasqua con un ragazzo del luogo anzichè starsene a casa a fissare il soffitto, non è stata come nelle mie intenzioni una dimostrazione di fiducia bensì “una fesseria“, perchè le regole del gioco sono altre. Gioco? Sì, il gioco della seduzione, del dico-non dico-immagino, che io ammetto pubblicamente di non saper giocare. Per questo, fin dal primo giorno in cui ho conosciuto Francesca in chat, ho messo in chiaro le “mie” regole, quelle della sincerità e del parlare chiaro: le uniche che conosco, che voglio, e che sono in grado di applicare. Lei le aveva accettate, o almeno così sembrava. E allora perchè ha voluto cambiarle in corsa proprio sul più bello?

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PARTITA A CARTE

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